Il “Corriere di Livorno”, articolo del 4 giugno

Oltre ogni archiviazione. Oltre ogni decisione. Per Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi, il detenuto che morì all’interno del carcere delle Sughere di Livorno nel luglio del 2003, c’è ancora da far luce sul decesso del figlio. Il giudice per l’udienza preliminare Rinaldo Merani ha accolto lo scorso 19 maggio, la richiesta del pm Giaconi di archiviare il caso. Nessun omicidio. Nessuna morte violenta. Marcello Lonzi per la magistratura è morto di un malore Un infarto. Un male inevitabile e dovuto da un mix da fattori fisici e pregressi che hanno portato il suo cuore a dire basta. Giustificazioni però che non bastano, che non fanno trovare pace all’animo della madre di Marcello Lonzi che subito dopo l’udienza aveva già annunciato: «andremo fino alla corte europea se necessario». Il primo passo, prima di arrivare a Bruxelles, è quello di passare dalla Cassazione, dove ieri l’avvocato Dinelli si è recato per depositare il ricorso preparato con attenzione in questi giorni. Si va avanti dunque. Senza sosta. Una battaglia che per Maria Ciuffi sta durando ormai da troppo tempo. Da quel maledetto 11 luglio di sette anni fa in cui suo figlio è morto dentro a una cella. Un cuore debole è vero, un passato da assuntore di sostanze stupefacenti, ok. Ma davanti tutta una vita da poter ricostruire. A quella giovane età, 29 anni, è dura ingoiare la morte di un figlio. E’ dura da mandar giù. Da spiegare che "Marcellino", come lo chiamava chi gli voleva bene è morto in carcere. Adesso toccherà ai Supremi Giudici valutare ancora una volta il caso e stabilire se il caso Lonzi sia degno o meno di archiviazione. Nonostante il dispositivo del giudice Merani, i dubbi rimangono specialmente se si prendono in mano i fogli dell’inchiesta con i verbali di sommaria informazione. Secondo quanto riportato da E.B. detenuto all’epoca dei fatti nell’ottava sezione «Mi trovavo in infermeria (…) quando entrò un agente di custodia che appariva molto agitato con l’uniforme in disordine e testualmente diceva "mi è morto fra le mani mi è morto fra le mani", accortosi della mia presenza si dava un contegno smettendo di parlare». Ma anche: «Ho saputo che nella cella di isolamento qualche detenuto veniva picchiato, io stesso ho visto delle tracce di sangue nel corridoio, sovente venivano usati metodi violenti dalle guardie». La Corte di Cassazione avrà dunque del materiale sul quale riflettere. La storia continua. La speranza della madre di trovare un nome contro cui inveire per la morte del figlio, pure.
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